La Divina Commedia di Dante Alighieri illustrata da Gustavo Dore e dichiarata con note tratte dai migliori commenti per cura di Eugenio Camerini. Milano, Sonzogno, 1868Nella Divina Commedia il mondo animale ha un ruolo centrale fin dal primo incontro fra Dante e le tre fiere.

In molti casi, gli animali svolgono una funzione allegorica: si pensi appunto alle tre fiere o al veltro. In altri casi, invece, tormentano i dannati in modo realistico: pensate ai mosconi, le vespe e i vermi che tartassano gli ignavi (Inf. III), le cagne che danno la caccia agli scialacquatori (Inf. XIII) e i terribili serpenti nella bolgia dei ladri (Inf. XXIV-XXV).

Amplissimo, poi, è l’uso che Dante fa di riferimenti agli animali in similitudini riferite alle anime dell'aldilà. Nel canto V dell'Inferno i lussuriosi sono paragonati a storni, gru e colombe, ma vari riferimenti sono disseminati in ciascuna delle tre Cantiche. 

In tutti i casi, i riferimenti agli animali non svolgono soltanto una funzione ornamentale ma, attraverso l’attivazione dei loro sensi simbolici, contribuiscono a costruire il significato complessivo del passo. 

In questa terza sezione della mostra online vi presentiamo gli animali nell'Inferno dantesco che maggiormente hanno colpito la fantasia di artisti antichi e moderni.

 

Le tre fiere del Canto I 

«Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,

una lonza leggera e presta molto,

che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,

anzi ’mpediva tanto il mio cammino,

ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto

...ma non sì che paura non mi desse

la vista che m’apparve d’un leone.

Questi parea che contra me venisse

con la test’ alta e con rabbiosa fame,

sì che parea che l’aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame

sembiava carca ne la sua magrezza,

e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza

con la paura ch’uscia di sua vista,

ch’io perdei la speranza de l’altezza.»

 

La parola fiera è usata da Dante come sinonimo di animale feroce e pericoloso. Dante conosceva bene il passo 5:6 del libro di Geremia dove si parla di un leone, un lupo e un leopardo:

«Per questo li azzanna il leone della foresta,
il lupo delle steppe ne fa scempio,
il leopardo sta in agguato vicino alle loro città

quanti ne escono saranno sbranati;
perché si sono moltiplicati i loro peccati,
sono aumentate le loro ribellioni.»

così come i numerosi bestiari medievali, opere in cui si descrivevano animali reali e fantastici e si suppliva alle scarse conoscenze scientifiche con leggende e interpretazioni allegoriche che riconducevano sempre le abitudini e i comportamenti delle bestie a significati morali e religiosi.

La prima fiera che Dante incontra è una lonza. Successivamente incontra un leone e infine una lupa, che lo respinge verso la selva. Ciascuna delle tre fiere ha caratteristiche ben distinte: la lonza è agile ed elegante; il leone è statuario e incute paura; la lupa, di impressionante magrezza, è irrequieta e famelica. 

All'interpretazione letterale delle tre fiere si somma quella che allegorica. A tal riguardo le interpretazioni sono molteplici. I commentatori più antichi identificarono le tre fiere rispettivamente con la lussuria, la superbia e la cupidigia (cioè l’avidità di ricchezze e beni materiali), ovvero i vizi più diffusi tra gli uomini del tempo. Alcuni commentatori moderni preferiscono, invece, identificare le fiere con «le tre faville c’hanno i cuori accesi» (Inf. VI, 75), cioè invidia, superbia, avarizia. In questo caso la lonza sarebbe l'invidia. Altri commentatori moderni identificano le tre fiere con «le tre disposizion che ’l ciel non vole» (Inf. XI, 81), cioè con la frode, la violenza e l’incontinenza (vale a dire il non sapersi moderare). 

Altri studiosi ancora hanno preferito un'interpretazione politica: di conseguenza, nella lonza sarebbe da vedere Firenze, nel leone la reale Casa di Francia, mentre la lupa sarebbe l'allegoria della Curia romana sotto il pontificato di Bonifacio VIII. 

Le immagini dalla 1 alla 7 mostrano alcune riproduzioni delle tre fiere.

 

Mosconi, vespe e vermi nel Canto III

«Questi sciaurati, che mai non fur vivi,

erano ignudi e stimolati molto

da mosconi e da vespe ch’eran ivi.

Elle rigavan lor di sangue il volto,

che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi

da fastidiosi vermi era ricolto.»

 

I primi commentatori di Dante cercarono di dare una spiegazione del contrappasso dantesco per "l'anime triste di coloro che visser sana 'nfamia e sana lodo", cioè gli ignavi, anime che in vita non operarono né il bene né il male per non voler scegliere.

Guido da Pisa vide "similitudinem et figuram vilissimarum cogitationum ac etiam operationum, quas cogitant et operantur in hoc mundo isti tales miseri et vecordes ", mentre Benvenuto da Imola giustifica il ricorso a tali punitori con il fatto che "ista... animalia generantur ex putrefactione et superfluitate."

Più diffusamente il Boccaccio: "Li quali mosconi e vespe sono da intendere per la memoria di due loro singulari miserie... le quali furono l'una nel brutto e sporcinoso modo di vivere che tennero, l'altra nell'oziosamente vivere... Le vespe s'ingenerano delle interiora dell'asino similemente corrotte, e l'asino essere inerte, ozioso e torpente animale assai chiaro si conosce per tutti; e però per le punture delle vespe, amarissime, assai bene si dee comprendere, per quelle, il morso doloroso della rimembranza della loro oziosità, dal quale sono dolorosamente trafitti." (Cfr Enciclopedia dantesca, Roma 1970, III, 1043-1044) 

E' stata inserita nella mostra virtuale la tavola di Luigi Ademollo o Ademolli (Milano, 1764-Firenze, 1849) incisa da Giovanni Paolo Lasinio (immagine 8).

 

Le nere cagne del Canto XIII

«Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena.

In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.»

 

Nel tredicesimo canto Dante descrive una scena di caccia: una muta di cagne nere continuamente assale e strazia gli scialacquatori, che in vita sperperarono sventatamente i loro beni

Nelle cagne nere molti commentatori antichi e moderni vedono dei veri e propri diavoli. Altri, come Cristoforo Landino intendevano allegoricamente i morsi delle cagne come "rimorsi di coscienza" o "la vergogna" o " i creditori" e, in genere, "le preoccupazioni" che tormentarono in vita questi peccatori. (Cfr Enciclopedia dantesca, Roma 1970, I, 750). 

Le immagini 9 e 10 presentano un'incisione dell'edizione veneta del 1491 di Bernardino Benali e Matthio da Parma e la tavola di Armando Spadini (Firenze, 1883 - Roma, 1925), pittore italiano tra i rappresentanti della cosiddetta Scuola Romana. Nel 1901, Spadini partecipò al concorso Alinari per l'illustrazione della Divina Commedia e ottenne il secondo premio con il quadro Bestemmia e punizione di Vanni Fucci

 

I serpenti dei Canti XXIV e XXV

Dante e Virgilio percorrono il ponte sino all'argine tra la VII e l'VIII Bolgia e da qui Dante vede che l'ottava fossa è piena di orribili serpenti, tutti diversi tra loro. Il deserto di Libia non produce rettili più numerosi e orrendi di quelli, né l'Etiopia o l'Arabia. In questo ammasso di serpenti corrono nudi e terrorizzati i ladri, con le mani legate dietro la schiena da serpi che insinuano il capo e la coda attorno ai fianchi, annodandosi davanti al ventre.

 

«...e vidivi entro terribile stipa 
di serpenti, e di sì diversa mena 
che la memoria il sangue ancor mi scipa.                   
Più non si vanti Libia con sua rena; 
ché se chelidri, iaculi e faree 
produce, e cencri con anfisibena,                                  
né tante pestilenzie né sì ree 
mostrò già mai con tutta l’Etiopia 
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.                    
Tra questa cruda e tristissima copia 
correan genti nude e spaventate, 
sanza sperar pertugio o elitropia:                                  
con serpi le man dietro avean legate; 
quelle ficcavan per le ren la coda 
e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.»

 

La presenza dei serpenti nella bolgia dei ladri ha una derivazione biblica: il serpente che striscia potrebbe simboleggiare la natura subdola di questi dannati e la loro perfida astuzia. In questo canto i serpenti fanno parte dell'apparato punitivo (Cfr. Enciclopedia dantesca, Roma 1970, IV).

Dante osserva un dannato assalito da un serpente. La serpe lo morde tra il collo e la spalla e nel tempo di scrivere una "O" oppure una "I" (lettere tracciate con un solo tratto di penna) il dannato si incenerisce, per poi cadere a terra, raccogliersi e tramutarsi di nuovo nella stessa figura di prima, in modo assai simile a ciò che si narra della fenice che muore e rinasce ogni cinquecento anni.

Il peccatore si rialza e ha l'aria sgomenta, come colui che cade a terra vittima di un'ossessione diabolica o di una paralisi. Virgilio gli chiede chi sia e il dannato che il suo nome è Vanni Fucci e Pistoia è la città in cui è nato, vivendo un'esistenza degna di una bestia. 

 

«Io piovvi di Toscana, 
poco tempo è, in questa gola fiera. 
Vita bestial mi piacque e non umana, 
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci 
bestia, e Pistoia mi fu degna tana.»   

 

Nel Canto XXV Dante e Virgilio sono ancora nella VII Bolgia e incontrano cinque ladri di Firenze: Cianfa Donati, Agnello Brunelleschi, Buoso Donati, Puccio Sciancato e Francesco dei Cavalcanti. Alcuni di loro subiscono orrende metamorfosi, che hanno colpito la fantasia di celebri artisti antichi e moderni.