Durante il suo viaggio all'inferno, Dante incontra vari demoni di origine biblica o mitologica.
I primi li deriva dalla tradizione patristica, gli altri dalla mitologia pagana che aveva conosciuto durante gli anni dello studio dei classici latini: Virgilio, la sua guida nell'oltretomba, Lucano, Stazio e Ovidio, le cui Metamorfosi contenevano tutto il sapere sul mondo mitologico.
Di tutti, Dante varia la fisionomia accentuando gli aspetti animaleschi o mostruosi, fino a farne l'allegoria della colpa a cui sono preposti.
A Caronte, Minosse, Cerbero, Plutone, Flegiàs, le Furie, Medusa, il Minotauro, i Centauri, le Arpie, Gerione, Caco, i Giganti il poeta attribuisce funzioni diverse: ad alcuni è affidato il compito di traghettare le anime; a Minosse di giudicarle; a Cerbero e a Plutone di fare la guardia, rispettivamente al III e al IV cerchio; ai Centauri e alle Arpie è dato di tormentare alcuni dannati.
Il primo demonio: Caronte
Il primo demone mitologico che incontra negli inferi è Caronte, o Carón, guardiano dell'Inferno e nocchiero dell'Acheronte (Inf. III, 70-136). Secondo il mito è figlio dell'Erebo e della Notte, ministro di Ade, traghettatore delle anime dei morti sepolti attraverso la palude di Acheronte. Greci, etruschi e romani ponevano nelle tombe, dopo le esequie, un obolo perché il defunto avesse di che pagare il traghettatore infernale.
Dante lo incontra mentre è intento a radunare le anime dei peccatori sulla barca e a battere col remo quelle che si adagiano sul fondo. Ispirandosi alla descrizione che ne dà Virgilio (Eneide VI, 298-301), pone l'accento sugli "occhi di bragia".
Come faranno altri dopo di lui, Caronte si stupisce della presenza di un uomo vivo nell'aldilà e reagisce stizzito, ma viene zittito da Virgilio con i famosissimi versi "Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare" (Inf. III, 95-96). Come tutti i demoni, Lucifero compreso, anche Caronte è un essere assoggettato alla potenza divina e non può opporre alcun rifiuto alla volontà divina che vuole e guida il viaggio di Dante (immagini da 1 a 5).
Minosse
All'incontro con Caronte segue quello con Minosse, o Minòs, giudice di tutte le anime che si presentano alla porta dell'inferno. Nel mito, proprio per la sua fama di legislatore e d'inflessibile giusto, Minosse, re di Creta, fu posto dagli dei come giudice nell'aldilà, spesso insieme a suo fratello Radamanto e a Eaco.
Dante conobbe il mito per i numerosi riferimenti sparsi un po' in tutti i poemi latini e naturalmente grazie alla lettura di Virgilio, secondo cui Minosse esamina e giudica i morti non lontano dall'ingresso dell'oltretomba (Eneide VI, 432-433).
Usciti dal Limbo, Dante e Virgilio entrano nel II cerchio. Sulla soglia sta "orribilmente... e ringhia" Minosse, che ha perduto i tratti umani e assunto un aspetto animalesco. (Inf. V, 4-6). Ha una coda talmente lunga da poterla avvolgere attorno a sé un numero di volte corrispondente al cerchio in cui spedisce l'anima del dannato (Inf. V, 9-12). Anche Minosse accoglie Dante con parole minacciose ed è zittito da Virgilio con la stessa formula già usata con Caronte (immagini 6 e 7).
Cerbero
All'entrata del III cerchio, Dante è terrorizzato da Cerbero, il favoloso mostro a tre teste, figlio di Tifeo e di Echidna, collocato a guardia e tormento dei peccatori qui condannati. Cerbero è il primo tra i mostri mitologici posti, per le loro caratteristiche, come guardiani dei dannati e, al tempo stesso, come esecutori della giustizia divina.
Dante riprende la descrizione in parte da Virgilio e in parte da Ovidio. Virgilio descrisse questo "ianitor Orci" accucciato in un antro sanguinolento sopra delle ossa smembrate (Eneide VIII, 296-297). Ovidio aveva aggiunto a questi elementi la bava velenosa.
Dante ne enfatizza le caratteristiche mostruose in relazione col peccato della gola, che nel III cerchio viene punito: ha gli occhi vermigli simbolo di avidità, la barba unta e nera, il ventre largo per l'insaziabilità, gli artigli per afferrare il cibo e tormentare i dannati graffiandoli, spellandoli e facendoli a pezzi; emette dei latrati come un cane rabbioso. Per la sua proverbiale voracità è il miglior aguzzino dei golosi (immagini dalla 8 alla 10).
Pluto
Altri mostri mitologici sembrano trovarsi in un determinato punto dell'inferno per ciò che rappresentano. È il caso di Pluto, figlio di Iasio e di Demetra, dio greco della ricchezza nel cerchio degli avari e dei prodighi, oppure Plutone, figlio di Saturno (Cronos), dio classico degli Inferi e sposo di Proserpina.
All’ingresso del IV cerchio, Dante e Virgilio sono accolti dal demone custode con un'affermazione misteriosa e minacciosa:"Papè Satàn, papè Satàn aleppe!"
La descrizione di Pluto è piuttosto generica: Dante lo definisce "fiera crudele" (Inf. VII, 15) e "maledetto lupo" (Inf. VII, 8) probabilmente per l'equivalenza cupidigia-lupa varie volte affermata nel poema.
L'incontro è sbrigativo: zittita da Virgilio, la bestia si accascia priva di forza e mostra al lettore la sua impotenza di fronte al volere divino. I due poeti possono quindi proseguire (immagini 11 e 12).
Flegiàs
Personaggio della mitologia classica Flegiàs, è al centro di diversi miti. Uno di questi vuole che Flegiàs, figlio di Marte e Crise, in preda a un'ira nefasta incendiò il tempio di Apollo a Delfi perché il dio aveva sedotto sua figlia Coronide. Per questo atto empio e scellerato fu precipitato nel Tartaro.
Dante prende spunto dalla mitologia classica e ne fa un demone traghettatore infernale. Chi meglio di Flegiàs, incendiario, può avere il compito di imbarcare le anime e introdurle a Dite, la città del fuoco custode degli iracondi e accidiosi?
Dante non dà una descrizione fisica di Flegiàs, quanto piuttosto lo caratterizza come un iracondo animato da una rabbia repressa. Il nocchier forte (Inf. VIII, 80) prima apostrofa Dante credendolo un dannato (Inf. VIII, 18), poi zittito da Virgilio fa salire entrambi sulla sua barca e li trasporta a Dite. A metà del guado avviene l'incontro con Filippo Argenti. Dopo di ciò il nocchiero depone i due viandanti di fronte all'ingresso della città infernale (Inf. VIII, 81) e infine scompare (immagini dalla 13 alla 15).
Le Furie e Medusa
Tra i demoni a guardia della città di Dite (Inf., IX, 52 ss.) Dante inserisce le Furie, dette anche Erinni, creature del mito classico collegate alla dimensione dell'oltretomba. Figlie di Acheronte e della Notte, le Furie erano le antiche dee della maledizione e della vendetta, che perseguitavano e punivano i violatori dell'ordine morale. Megera, Aletto e Tesifone - questi i loro nomi - comparvero in vari poemi e opere greco-latine, inclusa l'Eneide.
Dante le introduce fra i demoni guardiani che si oppongono al suo passaggio. "Le feroci Erine" appaiono improvvisamente in cima all'alta torre della città, con sembianze femminili, coperte di sangue e con le tempie cinte di serpenti. Si lacerano il petto con le unghie, si percuotono a palme aperte e urlano così forte da terrorizzare Dante, evocando l'intervento di Medusa. (Immagini 16 e 17)
Medusa è la più piccola delle tre Gorgoni della mitologia classica ed è anche la più pericolosa, perché in grado di pietrificare chiunque la guardasse. Benché essa non compaia direttamente ma venga solo evocata, la minaccia è presa sul serio da Virgilio, che obbliga Dante a voltarsi e a coprirsi gli occhi con le mani, coprendoli anche con le sue (immagine 18).
Il Minotauro, le Arpie e i Centauri
A guardia del VII cerchio dell'inferno, Dante introduce la figura tragica del Minotauro. Personaggio della mitologia classica nato dalla mostruosa unione di Pasifae, moglie del re di Creta Minosse, e di un bellissimo toro bianco di cui la donna si era invaghita, Minosse lo rinchiuse nel labirinto creato da Dedalo. Alimentato di carne umana, il Minotauro venne ucciso da Teseo con l'aiuto di Arianna, figlia di Minosse, che fornì all'eroe il filo necessario a ritrovare l'uscita.
Il mito del Minotauro è riferito da numerosi mitografi e poeti classici, fra i quali particolarmente presente alla memoria di Dante era Virgilio.
"L'infamia di Creti" (Inf. XII, 12) è distesa all'estremità dello scoscendimento da cui si accede al VII cerchio. Alla vista di Dante e della sua guida morde se stesso "sì come quei cui l'ira dentro fiacca" (Inf. XII, 15). Virgilio lo apostrofa e gli dice che colui che si avvicina non è il suo uccisore Teseo. Mentre il Minotauro, accecato dal furore, si agita dissennatamente, i poeti passano oltre indisturbati.
Nell'inferno dantesco il Minotauro, orrenda mescolanza di uomo e bestia, rappresenta la violenza contro il prossimo, contro se stessi e contro Dio, perciò introduce a tutto il girone dei violenti (immagine 19).
Addentratisi nella selva, Dante e Virgilio incappano nelle Arpie, mostri mitologici col corpo di uccello e la testa di donna che emettono strani versi. Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar dalle Strofadi i troiani con tristo annuncio di futuro danno. Ali hanno late e colli e visi umani, piè con artigli e pennuto il gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani.
Nella mitologia classica, le Arpie sono figlie di Taumante ed Elettra e simboleggiano la violenza e la furia delle bufere. Dante le pone guardiane del secondo girone del settimo cerchio e dà loro il compito di torturare i suicidi mutati in piante: cibandosi delle foglie e costruendosi dei nidi su quei rami, le Arpie rompono incessantemente le fronde e causano perciò ai dannati eterni e insopportabili dolori.
Vari commentatori trecenteschi videro il contrappasso appunto in ciò, in quanto i suicidi gettarono via la propria vita e all'inferno sono lasciati in balia di quei mostri che eternamente li distruggono (immagini dalla 20 alla 22).
Gli esseri mitologici che hanno maggiormente colpito la fantasia degli illustratori in mostra sono certamente i centauri. Creature ibride, metà uomo e metà cavallo, considerati violenti e intemperanti nel mito classico, i centauri danteschi sono i guardiani dei violenti contro il prossimo. Corrono in schiera lungo le rive del Flegetonte, sorvegliando i dannati e colpendoli con le loro frecce qualora tentino di alleviare la pena sollevandosi dal fiume di sangue più del tanto che la giustizia divina ha decretato.
Vedendo avvicinarsi Dante e Virgilio, Chirone, Nesso e Folo si staccano dalla schiera e si fanno loro incontro. Nesso intima ai due pellegrini di fermarsi e dire a quale supplizio vengano, se non vogliono esser colpiti dalle sue frecce. Ma Virgilio risponde seccamente che parlerà solo con Chirone, il loro capo. Quindi Virgilio spiega la situazione a Chirone, il quale incarica Nesso di prendere sulla groppa Dante e fargli guadare il fiume di sangue. Il centauro obbedisce e indica a Dante diversi dannati, prima di deporlo sull'altra sponda del Flegetonte (immagini dalla 23 alla 31).
I demoni adiuvanti: Gerione
Alle soglie del basso inferno, giunto alla cascata assordante del Flegetonte, Dante incontra un personaggio mitologico che aiuta lui e Virgilio a oltrepassare un abisso che altrimenti non avrebbero potuto superare. Si tratta di Gerione, "sozza imagine di froda", demone adiuvante che porta i due poeti dal medio al basso inferno, cioè dal VII all’VIII cerchio.
Nel mito Gerione era figlio di Crisaore e della ninfa Calliroe ed era un gigante con tre corpi uniti all’altezza della vita, che Ercole uccise per impossessarsi dei buoi rossi. Re di tre isole iberiche, oltre che mostruoso Gerione era anche spietato, perché uccideva coloro a cui dava ospitalità. Virgilio lo aveva posto tra i custodi dell'Averno, indicandolo come forma tricorporis umbrae (Eneide, VI 289).
Dante reinterpreta radicalmente la figura mitologica, mescolando motivi classici a motivi tratti dalla tradizione biblica. Gerione è descritto come un essere dalla faccia di uomo giusto, zampe pelose fino alle ascelle e artigliate, corpo di serpente decorato da motivi labirintici, coda biforcuta con un pungiglione avvelenato come quello di uno scorpione.
Dante fa di Gerione l'allegoria della frode, punita negli ultimi due cerchi. Il volto di uomo giusto e la coda biforcuta e velenosa alludono al fatto che chi imbroglia è sempre pronto a colpire le sue vittime. I nodi e le rotelle dipinte su schiena e petto alludono probabilmente agli intrecci e ai maneggi dell'inganno (immagini dalla 32 alla 39).
Caco, il centauro
Tra i serpenti che tormentano i ladri, Dante vede comparire un centauro. Si tratta di Caco, figlio di Vulcano, essere gigantesco e mostruoso e vomitante fiamme dalla bocca, ladro di bestiame e dedito a ogni scelleratezza. Secondo il mito, rubò a Ercole i buoi del re Gerione e questi lo uccise in una grotta nell'Aventino (Eneide, VIII 184-275).
Nell'inferno dantesco Caco è il demone preposto alla settima bolgia dell'ottavo cerchio, dove sono puniti i ladri (Inf. XXV, 17-33).
Dante lo descrive come un centauro con un gran drago ad ali spiegate sopra le spalle e con moltissime bisce sulla groppa che infiamma chiunque lo incontri. Virgilio spiega che per quel furto fraudolento Caco fu separato dai suoi fratei, cioè dai centauri, che abbiamo già incontrato nel girone dei violenti contro il prossimo (immagine 40).
Il racconto virgiliano è alla base della descrizione dantesca, nonostante Virgilio non lo descriva come mezzo uomo e mezzo cavallo, né come fratello dei centauri, che erano figli di Issione e di una nube.
I Giganti
Creature mitologiche della tradizione biblica e classica, i giganti sono descritti come esseri smisurati dalla forza immane e, in genere, con caratteristiche negative.
Nel mito classico i giganti erano i figli di Gea e Urano che si ribellarono a Giove tentando la scalata al cielo, ma furono sterminati nella battaglia di Flegra, in Tessaglia: la Titanomachia.
Dante li colloca intorno al pozzo che divide l'VIII dal IX Cerchio dell'inferno, come dannati associati al peccato di tradimento: anche essi si ribellarono a Dio e sono perciò accostati a Lucifero.
Dante li vede in lontananza e a causa delle fitte tenebre li scambia per enormi torri. Virgilio dissipa l'errore: "Pria che noi siamo più avanti, acciò che ’l fatto men ti paia strano, sappi che non son torri, ma giganti, e son nel pozzo intorno da la ripa da l’umbilico in giuso tutti quanti" (Inf. XXXI, 29-33)
Il primo a cui si avvicinano è Nembrod, "anima sciocca" (Inf. XXXI, 70), che pronuncia parole incomprensibili ed è invitato da Virgilio a sfogare la sua ira suonando il corno da caccia che tiene a tracolla. Virgilio spiega a Dante che il linguaggio del gigante è incomprensibile, in quanto a Nembrod si deve la confusione delle lingue a Babele.
Virgilio mostra poi a Dante Fialte, che prese parte alla battaglia di Flegra: è strettamente legato da una catena e si dibatte rabbioso.
I due poeti incontrano infine Anteo, figlio di Nettuno e di Gea che secondo il mito viveva in una grotta nella valle presso Zama e uccideva i viaggiatori che passavano nel suo deserto. Anteo non aveva preso parte alla battaglia di Flegra e per questo motivo non è legato. Virgilio gli parla a lungo per indurlo ad aiutarli a raggiungere il fondo del pozzo. Il gigante acconsente ad aiutarli e depone i due viandanti sulla ghiaccia di Cocito.
Nel pozzo ci sono anche Efialte e Briareo, che analogamente a Nembrot sfidarono gli dei pagani tentando la scalata all’Olimpo, oltre a Tizio e a Tifeo, che minacciarono gli dei in altre occasioni, ma vengono solo citati (immagini dalla 41 alla 49).