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L'antiquario di rue Cherif Pasha

Divagazioni intorno a un libro e a una mostra

Il 13 dicembre 1930, la papirologa Medea Norsa giunse in treno, da Firenze a Bologna, per una prima ricognizione dei papiri  acquistati, su segnalazione del professore Achille Vogliano, dal Ministero dell'Educazione nazionale e da questo destinati alla Biblioteca Universitaria di Bologna "per uso della Facoltà di lettere": il Soprintendente bibliografico per la Toscana fu incaricato di condurre le trattative per l'acquisto con il grande mercante di antichità egizie Maurice Nahman, arrivato a Firenze all'inizio dell'estate di quel 1930; i papiri, costati "ufficialmente" 50.000 lire, già nel mese di agosto erano stati assunti in carico dal direttore della biblioteca bolognese Antonio Boselli, che  invitò Medea Norsa per un prima inventariazione e iniziò l'allestimento di una apposita  papyrotheke. A tali fatti Luciano Canfora dedica il secondo capitolo del suo Il papiro di Dongo, (Adelphi, 2005, p. xxiii, 812): la nascita della collezione dei papiri bolognesi e la guerra che essi scatenarono negli ambienti accademici, tra Bologna e Milano (come "la bella Elena, per cui dieci anni combatterono gli uni contro gli altri Greci e Troiani"), fanno da preludio alle successive e più aspre vicende che occupano oltre settecento pagine del volume; in esse, un altro e più importante papiro, contenente frammenti delle Elleniche di Ossirinco, pervenuto a Firenze nella primavera del 1934, "acquistato (o forse) recuperato" da Norsa nel negozio dello stesso Nahman, e proveniente dall'area di Bahnasa,  scandisce e segna dolorosamente il destino dei protagonisti che ebbero a che fare con esso: la stessa Norsa, discepola prediletta di Girolamo Vitelli, prigioniera prima del ruolo di Helferin (assistente) devota, come ebbe a definirla Maas, emarginata poi dal mondo accademico in seguito all'inasprirsi delle leggi razziali; Goffredo Coppola, grande filologo, fascista convinto, fanatico irriducibile fino a Salò e all'epilogo di Dongo; Alberto Graziani, suo precoce e geniale  discepolo,  autore di una prima edizione del papiro, e approdato poi, sotto la guida di Longhi, alla storia dell'arte, quindi scomparso prematuramente nel 1943.

Molto si è già detto, nelle recensioni  apparse finora, di questa opera straordinaria, romanzo di generazioni di accademici "che si inseguono" e del loro rapporto con il fascismo, storia della "papirologia militante" italiana, in competizione con gli inglesi in Egitto, ma anche storia di destini segnati da rancori e odi profondi, emarginazioni e colpevoli rimozioni,  colpi di scena, furti e riapparizioni, indagine serrata e avvincente. Tra i tanti personaggi di secondo rango che affollano la scena,  un ruolo particolare gioca proprio Maurice Nahman, lo spregiudicato e colto venditore di antichità del Cairo, da cui, come si è detto, provenivano anche i papiri bolognesi. Ebreo, nato nel 1868 da Robert e Sarina Rossano, discendente di Matatia Nahman,  inziò la carriera nel mondo della finanza; fu, infatti, per qualche tempo, cassiere principale presso il Crédit Foncier, massimo organismo finanziario d'Egitto; intraprese quindi con fortuna l'attività antiquaria e divenne, tra gli anni '20 e '40, il più grande mercante del Cairo: il suo negozio-galleria  di rue Madabegh 27, divenuta poi rue Cherif Pasha, nel quartiere di Ismailieh, futuro cuore della Cairo moderna, occupava i locali dell'ex Hôtel del barone e banchiere Alphonse Delort de Gléon (1843-1899), raffinato esempio di architettura in "stile arabo", realizzato da Ambroise Baudry (1838-1906);  nella stessa via, al numero 43, la pensione Morandi, era il luogo di abituale soggiorno degli archeologi e dei papirologi italiani di passaggio al Cairo, e, non lontano, all'angolo con Kasr el-Nil, era ubicata la vecchia legazione diplomatica francese. Un inserto commerciale della Galleria Nahman, datato 1929, pubblicizzava la vendita, su regolare licenza concessa dal Museo Egizio (n. 38), di antichità egizie, greche, romane, copte e islamiche, e, in particolare, di papiri e manoscritti, e quindi di antichi gioielli egiziani, scarabei, amuleti, collane, intagli, ricami, vasi di alabastro, statue, bronzi, ceramiche islamiche e rodie:  il tutto, come informava Jean Capart, era alloggiato in una vasta galleria con cui l'edificio moresco si allungava verso il fondo, e di cui Rosario Pintaudi ha pubblicato vecchie e suggestive  riproduzioni; l'allestimento adottato era affatto singolare e diverso da quello solitamente in uso nelle raccolte museali pubbliche e nelle collezioni private. La rapida fortuna di Nahman fu legata soprattutto ai traffici clandestini di antichità, fiorenti ai margini degli scavi delle missioni ufficiali, e ai ritrovamenti dei sebbach o dei fellahin: inviso a molti per tale sua equivoca e mai smentita attività, rimase pur tuttavia un riferimento prezioso e utile, quanto e più di uno scavo ("Il kom più fruttifero"), e intrattenne rapporti commerciali con istituzioni e privati di mezzo mondo. Capart, nel ricordo scritto in occasione della morte, ne elogiò, al di là dell'ambiguità di fondo, la grande e innegabile esperienza professionale.     Maurice Nahman morì nel marzo 1948 e la sua galleria, passata agli eredi, fu poi requisita in età nasseriana, ma la sua fama di antiquario sopravvisse, e, venti anni più tardi, il grande scenografo e regista alessandrino, Shadi Abdel Salam si sarebbe ispirato, secondo alcuni, a lui per il personaggio di Ayub, il misterioso e ambiguo mercante del film Al-momiaa (The night of counting the years, 1969). 

 E proprio a Shadi Abdel Salam la Bibliotheca Alexandrina dedica uno spazio espositivo permanente, dal titolo The world of Shadi Abdel Salam: i libri, gli arredi antichi e raffinati, i disegni, i costumi, le tante foto, con Roberto Rossellini nella sua stagione egiziana, o Elizabeth Taylor nella Cleopatra di Mankiewicz, testimoniano un mondo sontuoso e antico, un immaginario percorso da inesaurite ossessioni faraoniche e dominato dalla grandiosa eredità del passato, determinanti, al pari della tradizione islamica e della lingua araba, nella formazione della cultura e dell'identità egiziane moderne. Al-momiaa, considerato il miglior film del periodo nasseriano, fu ispirato a Shadi dalla spedizione archeologica di Maspero del 1881 a Deir el-Bahari, che portò alla scoperta della dimora delle mummie reali: anche allora importanti mercanti di antichità, quali Abd-er-Rassoul Ahmed, Sheik Abd-el-Gurna e Mustafa Aga Ayad, in accordo con i fellahin, governavano i traffici delle antichità egizie e ne ostacolavano il recupero da parte delle autorità, ma mi piace credere che, per il suo mercante Ayub, Nahman abbia offerto a Shadi un modello più vicino e colto rispetto a quelli ottocenteschi di cui pur parlava Maspero nelle sue cronache archeologiche. Il nome di Maurice Nahman riaffiora così, suggestivo e imprevisto, nella trama fantastica di Shadi, "le pharaon des registes egyptiens". 

Franco Pasti